La recente pubblicazione del DEF (Documento di Economia e Finanza) da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze presenta un quadro prospettico allarmante circa le conseguenza della crisi demografica. L’Italia è notoriamente un Paese a bassa natalità e con un continuo incremento della quota di popolazione anziana. Lo scenario è comune alle cosiddette nazioni ad avanzato sviluppo, tuttavia nel nostro Paese assume una specifica gravità, non soltanto per le conseguenze sui conti pubblici e sulla sostenibilità del debito pubblico. L’ISTAT osserva che nel corso del 2022 sono nati meno di 7 bambini a fronte di più di 12 decessi ogni 1.000 abitanti, il numero medio di figli per donna è 1,24 e la speranza di vita alla nascita si attesta a 82,6 anni, confermando la dinamica di riduzione della popolazione residente. In particolare, nel 2022, per la prima volta dal 1860, i nati sono scesi sotto le 400 mila unità: si conferma l’atteggiamento particolarmente cauto sulla decisione di avere figli ma, con la progressiva riduzione dell’ammontare della popolazione, si riducono anche le donne in età feconda, e ciò peggiora la crisi demografica. Il progressivo invecchiamento della popolazione si concretizza con un’incidenza degli individui con 65 e più anni d’età in quasi il 25% della popolazione totale, in lenta e inesorabile crescita. Le conseguenze, se volessimo pur solo limitarci agli aspetti di finanza pubblica, appaiono preoccupanti: una popolazione più vecchia implica maggiore impegno economico sulla spesa pensionistica e sulla spesa sanitaria, e l’assottigliamento della popolazione attiva che sostiene la finanza pubblica pone ulteriori criticità sull’esigenza di reperire maggiori finanziamenti esterni con ulteriore crescita del debito pubblico tramite emissioni di obbligazioni di Stato. In questo quadro, anche con ottimistiche previsioni sull’andamento del PIL, il rapporto debito/PIL è destinato a mantenersi su livelli elevati. A tal proposito, la Figura 1 riporta alcuni scenari previsivi tratti dal DEF 2023 circa il rapporto debito/PIL.
Lo scenario A è quello di riferimento dato l’attuale contesto, mentre gli scenari B sono eleborati nell’ipotesi virtuosa di compiere una serie di riforme ed aggiustamenti fiscali anche alla luce di quanto richiesto dai vincoli PNRR. Lo scenario C rappresenta una posizione intermedia.
Ovviamente questi scenari sono fortemente dipendenti dalla struttura demografica attuale e futura della popolazione e, nello specifico, dal permanere un basso tasso di fertilità. La Figura 2 mostra come una prospettiva di bassa fertilità contribuisca all’incremento dell’incidenza del debito pubblico sul PIL.
Allo stesso modo, una prospettiva di riduzione dei flussi migratori dall’estero peggiora sensibilmente la dinamica del rapporto debito/PIL (Figura 3).
Purtroppo anche nelle migliori e ottimistiche previsioni, il debito su PIL si mantiene su alti livelli; il rientro da valori alti avviene lentamente e peraltro solo se le azioni virtuose vengono mantenute e sostenute in modo coerente negli anni a seguire. Il rapporto debito/PIL si riduce se il debito decresce o, più realisticamente, cresce in misura contenuta ma accompagnato da sostenuta crescita economica con incrementi consistenti del PIL. E’ chiaro, d’altronde, che tutti gli aspetti sono tra loro connessi e, forse, ciò che caratterizza il dibattito attuale rispetto agli anni passati è una forte consapevolezza che le dinamiche demografiche e la bassa natalità sono un aspetto su cui porre particolare attenzione, essendo ben consapevoli che le politiche da attuare per accrescere la natalità manifestano risultati lenti e in parte incerti.
Il rapporto debito/PIL è dunque molto alto e tale rimarrà nei prossimi decenni. E’ interessante notare che siamo tra le nazioni più indebitate al mondo: sesta su debito assoluto e quarta rispetto al PIL, dopo Giappone, Venezuela e Grecia. Ma perchè è un male avere un cosi elevato debito? Debito significa spendere ed accumulare spesa più di quanto lo Stato incassi e riesca a coprire con imposte e tasse (ancora peggio se tale spesa viene usata per voci cosiddette improduttive rispetto ad attività produttive a maggiore impatto sullo sviluppo, come un certo tipo di investimenti). Ovviamente avere debiti alti è più grave se l’economia non mostra buoni livelli di crescita economica, perchè da ciò discende l’incapacità di produrre abbastanza ricchezza, questo è il senso del rapporto debito/PIL. Se le spese sono maggiori delle entrate, la differenza va comunque coperta. Il resto del denaro, non potendolo semplicemente stampare, va chiesto in prestito e, solitamente, lo Stato lo fa offrendo ai contribuenti e investitori nazionali e esteri, una specie di cambiale, un pagherò, cioè i buoni del tesoro, delle obbligazioni, in base alla quali dopo una certa scadenza lo Stato si obbliga a restituire il prestito più gli interessi sullo stesso (senza interessi non ci sarebbe incentivo a prestare il danaro necessario). Più lo Stato viene considerato a rischio di tenuta economica, più occorre alzare gli interessi per convincere i mercati ad acquistare il proprio titolo rispetto, ad esempio, ad un’altra nazione meno rischiosa (tipicamente il confronto è fatto con la Germania, considerato benchmark di riferimento per il livello degli interessi, e la differenza tra gli interessi offerti dalla Germania e quelli offerti dall’Italia costituisce una misura di “spread”). La Figura 4 mostra l’andamento del rapporto debito/PIL a partire dall’unità d’Italia.
La crisi da covid ha fatto esplodere il debito (in tutto il mondo), ma è interessante notare che a partire dagli anni 60 inizia un progressiva crescita del debito su PIL in Italia (allo stesso modo, notiamo la riduzione degli anni ’90). Purtroppo, oggi il debito appare fuori controllo, in crescita continua sebbene la colpa sia sostanzialmente dell’ammontare notevole di interessi passivi da pagare e maturati sul debito pubblico accumulato. A tal proposito, è utile osservare che il saldo primario (la differenza tra entrate e spese delle amministrazioni pubbliche escluse le spese per interessi passivi) è da tempo con segno positivo e nell’ordine di 1,5% sul PIL (1,8% nel 2019), con l’eccezione già sottolineata nel periodo covid (circa -6% nel 2020 e 2021).